Carlo LUCARELLI, nato a Parma, vive vicino a Bologna, città per eccellenza del romanzo nero. Ha pubblicato otto romanzi. Cronista, drammaturgo, scrive sceneggiature di fumetti e soggetti di videoclip. Anima anche degli atelier di scrittura, insieme a una rivista letteraria su Internet.
Qui, vi propongo un bellissimo sguardo, commovente e sensibile che rende ammirevolmente gli universi interiori, ci fa uscire dalle convenzioni concettualizzate, e ci dà l’opportunità di pensare, di vedere e di sentire le cose altrimenti per ridisegnare la propria visione del mondo.
Il suono del disco che cade sul piatto è un sospiro veloce, che sa appena un po’ di polvere. Quello del braccio che si stacca dalla forcella è un singhiozzo trattenuto, come uno schioccare di lingua, ma non umido, secco. Una lingua di plastica. La puntina, strisciando nel solco, sibila pianissimo e scricchiola, una o due volte. Poi arriva il piano e sembrano le gocce di un rubinetto chiuso male e il contrabbasso, come il ronzio di un moscone contro il vetro chiuso di una finestra, e dopo la voce velata di Chet Baker, che inizia a cantare Almost Blue.
A starci attenti, molto attenti, si può sentire anche quando prende fiato e stacca le labbra sulla prima « a » di « almost », così chiusa e modulata da sembrare una lunga « o ». Al-most-blue… con due pause in mezzo, due respiri sospesi da cui si capisce, si sente, che sta tenendo gli occhi chiusi. Per questo mi piace Almost Blue. Perché è una canzone che si canta a occhi chiusi. Io, con gli occhi chiusi, ci sto sempre, anche se non canto. Sono cieco, dalla nascita. Non ho mai visto una luce, un colore o un movimento. Ascolto. Scandaglio il silenzio che mi circonda, come uno scanner, uno di quegli apparecchi elettronici che spazzano l’etere a caccia di suoni e di voce. So usarli benissimo, gli scanner, quello che ho dentro la testa da venticinque anni, fin da quando sono nato e quello che tengo in camera mia, accanto al giradischi. Se avessi degli amici, se ne avessi, di sicuro mi chiamerebbero Scanner. Mi piacerebbe. Io di amici non ne ho. Per colpa mia. Perché non li capisco. Parlano di cose che non mi riguardono. Dicono lucido, opaco, luminoso, invisibile, come in questa favola che mi raccontavano da bambino per farmi dormire. In cui c’era una principessa così bella e con una pelle così fine che sembrava trasparente. Ci ho messo tanto, tante notti sveglio a pensare, prima di capire che trasparente voleva dire che ci si poteva guardare dentro. Per me significava che le dita ci passavano attraverso.
Anche i colori per me hanno un altro significato. Hanno una voce, i colori, un suono, come tutte le cose. Un rumore che li distingue e che posso riconoscere. E capire. L’azzurro per esempio, con quella zeta in mezzo è il colore dello zucchero, delle zebre e delle zanzare. I vasi, i viali sono viola e giallo è il colore acuto di uno strillo. E il nero, io non riesco a immarginarlo ma so che è il colore del nulla, del vuoto. Però non è solo una questione di assonanza. Ci sono colori che per me significano qualcosa per l’idea che contengono. Per il rumore che contengono. Il verde, per esempio, con quella erre raschiante, che gratta in mezzo e prude e scortica la pelle, è il colore di una cosa che brucia, come il sole. Tutti i colori che iniziano con la « b », invece sono belli. Come il bianco o il biondo. O il blu, che è bellissimo. Ecco, ad esempio, per me una bella ragazza, per essere davvero bella, dovrebbe avere la pelle bianca e i capelli biondi. Ma se fosse veramente bella, allora avrebbe i cappelli blu.
Ci sono anche i colori che hanno una forma. Una cosa rotonda e grossa è sicuramente rossa. Ma le forme non mi interessano. Non le conosco. Per conoscerle bisogna toccarle e a me toccare non piace, non mi piace toccare la gente. E poi con le dita sento solo le cose che ho attorno, mentre con le orecchie, con quello che ho dentro la testa, posso arrivare lontano. Preferisco i rumori. Per questo uso lo scanner. Tutte le sere, salgo in camera mia e metto sul piatto un disco di Chet Baker. Sempre lo stesso, perché mi piace il suono della sua tromba, tutte quelle « p », piccole e profonde, che mi girano attorno e mi piace la sua voce che canta piano, come se venisse da dietro la gola e facesse fatica a uscire e per farlo si dovesse soffiare con tanto impegno da dover chiudere gli occhi. (…) Così tutte le sere e tutte le notti aspetto che Almost Blue mi scivoli lentamente in fondo alle orecchie, che la tromba, il contrabbasso, il pianoforte e la voce diventino la stessa cosa e riempiano il vuoto che ho dentro la testa. Allora, accendo lo scanner e ascolto le voci della città. Io, Bologna, non l’ho mai vista. Ma la conosco bene, anche se probabilmente è una città tutta mia. E’ una città grande: almeno tre ore.
A starci attenti, molto attenti, si può sentire anche quando prende fiato e stacca le labbra sulla prima « a » di « almost », così chiusa e modulata da sembrare una lunga « o ». Al-most-blue… con due pause in mezzo, due respiri sospesi da cui si capisce, si sente, che sta tenendo gli occhi chiusi. Per questo mi piace Almost Blue. Perché è una canzone che si canta a occhi chiusi. Io, con gli occhi chiusi, ci sto sempre, anche se non canto. Sono cieco, dalla nascita. Non ho mai visto una luce, un colore o un movimento. Ascolto. Scandaglio il silenzio che mi circonda, come uno scanner, uno di quegli apparecchi elettronici che spazzano l’etere a caccia di suoni e di voce. So usarli benissimo, gli scanner, quello che ho dentro la testa da venticinque anni, fin da quando sono nato e quello che tengo in camera mia, accanto al giradischi. Se avessi degli amici, se ne avessi, di sicuro mi chiamerebbero Scanner. Mi piacerebbe. Io di amici non ne ho. Per colpa mia. Perché non li capisco. Parlano di cose che non mi riguardono. Dicono lucido, opaco, luminoso, invisibile, come in questa favola che mi raccontavano da bambino per farmi dormire. In cui c’era una principessa così bella e con una pelle così fine che sembrava trasparente. Ci ho messo tanto, tante notti sveglio a pensare, prima di capire che trasparente voleva dire che ci si poteva guardare dentro. Per me significava che le dita ci passavano attraverso.
Anche i colori per me hanno un altro significato. Hanno una voce, i colori, un suono, come tutte le cose. Un rumore che li distingue e che posso riconoscere. E capire. L’azzurro per esempio, con quella zeta in mezzo è il colore dello zucchero, delle zebre e delle zanzare. I vasi, i viali sono viola e giallo è il colore acuto di uno strillo. E il nero, io non riesco a immarginarlo ma so che è il colore del nulla, del vuoto. Però non è solo una questione di assonanza. Ci sono colori che per me significano qualcosa per l’idea che contengono. Per il rumore che contengono. Il verde, per esempio, con quella erre raschiante, che gratta in mezzo e prude e scortica la pelle, è il colore di una cosa che brucia, come il sole. Tutti i colori che iniziano con la « b », invece sono belli. Come il bianco o il biondo. O il blu, che è bellissimo. Ecco, ad esempio, per me una bella ragazza, per essere davvero bella, dovrebbe avere la pelle bianca e i capelli biondi. Ma se fosse veramente bella, allora avrebbe i cappelli blu.
Ci sono anche i colori che hanno una forma. Una cosa rotonda e grossa è sicuramente rossa. Ma le forme non mi interessano. Non le conosco. Per conoscerle bisogna toccarle e a me toccare non piace, non mi piace toccare la gente. E poi con le dita sento solo le cose che ho attorno, mentre con le orecchie, con quello che ho dentro la testa, posso arrivare lontano. Preferisco i rumori. Per questo uso lo scanner. Tutte le sere, salgo in camera mia e metto sul piatto un disco di Chet Baker. Sempre lo stesso, perché mi piace il suono della sua tromba, tutte quelle « p », piccole e profonde, che mi girano attorno e mi piace la sua voce che canta piano, come se venisse da dietro la gola e facesse fatica a uscire e per farlo si dovesse soffiare con tanto impegno da dover chiudere gli occhi. (…) Così tutte le sere e tutte le notti aspetto che Almost Blue mi scivoli lentamente in fondo alle orecchie, che la tromba, il contrabbasso, il pianoforte e la voce diventino la stessa cosa e riempiano il vuoto che ho dentro la testa. Allora, accendo lo scanner e ascolto le voci della città. Io, Bologna, non l’ho mai vista. Ma la conosco bene, anche se probabilmente è una città tutta mia. E’ una città grande: almeno tre ore.
« Almost Blue » de Carlo LUCARELLI, 1997
Carlo Lucarelli, né à Parme le 26 octobre 1960, vit près de Bologne, ville du roman noir par excellence. Il a publié huit romans. Chroniqueur, dramaturge, il écrit des scénarios de bandes dessinées et des sujets de vidéoclips. Il anime également des ateliers d'écriture, ainsi qu'une revue littéraire sur Internet.
http://www.carlolucarelli.splinder.com/
Ici, je vous propose un très beau regard émouvant et sensible, qui rend admirablement les univers intérieurs, nous fait sortir des conventions conceptualisées et nous donne l'opportunité de penser, voir, et sentir les choses autrement pour redessiner notre propre vision du monde.
Le son du disque qui tombe sur le plateau est un soupir rapide qui sent à peine la poussière. Celui du bras qui se détache de son support est un sanglot retenu, comme un claquement de langue mais sec et non pas humide. Une langue de plastique. Le diamant, en glissant dans le sillon, siffle tout doucement et grésille une ou deux fois. Puis le piano arrive et on dirait les gouttes d’un robinet mal fermé, ensuite la contrebasse qui ressemble au bourdonnement d’une grosse mouche contre la vite fermée d’une fenêtre et enfin la vois voilée de Chet Baker qui commence à chanter Almost Blue.
Si l’on est attentif, très attentif, on peut même entendre quand il prend sa respiration et qu’il détache ses lèvres sur le premier a de Almost, un a si fermé et si modulé qu’il ressemble à un long o. Al-most-Blue… avec deux pauses au milieu, deux respirations suspendues qui font comprendre, ressentir, qu’il garde les yeux fermés. C’est pour cela que j’aime Almost Blue. Parce que c’est une chanson qui se chante les yeux fermés. Moi, j’ai toujours les yeux fermés, même si je ne chante pas. Je suis aveugle de naissance. Je n’ai jamais vu une lumière, une couleur, un mouvement. J’écoute. Je sonde le silence qui m’entoure, comme un scanner, un de ces appareils électroniques qui balaient l’éther à la recherche de sons et de voix. Je sais très bien utiliser les scanners, celui que j’ai dans la tête depuis vingt-cinq ans, depuis que je suis né, et celui que je garde dans ma chambre à côté de mon tourne-disque. Si j’avais des amis, si seulement j’en avais, c’est sûr, ils m’appelleraient Scanner. J’aimerais bien. Moi, je n’ai pas d’amis. Par ma faute. Parce que je ne les comprends pas. Ils parlent de choses qui ne me touchent pas. Ils disent brillant, opaque, lumineux, invisible, comme dans cette fable qu’on me racontait, enfant, pour m’endormir, dans laquelle il y avait une princesse si belle et avec une peau si fine qu’elle semblait être transparente. J’en ai passé du temps, de nombreuses nuits blanches à y réfléchir avant de comprendre que transparent voulait dire qu’on pouvait regarder à l’intérieur. Pour moi cela signifiait que les doigts passaient à travers.
Même les couleurs ont pour moi une autre signification. Elles ont une voix, les couleurs, un son, comme chaque chose. Un bruit qui les distingue et que je peux reconnaître. Et comprendre. L’azur, par exemple, avec ce z en plein milieu, est la couleur du sucre, des zèbres, et des moustiques. Les vases, les allées sont violètes et le jaune est la couleur perçante d’un cri strident. Et le noir, moi, je n’arrive pas à l’imaginer, mais je sais que c’est la couleur du néant, du vide. Toutefois, il ne s’agit pas que d’une question d’assonance. Il existe des couleurs qui ont pour moi un sens grâce à l’idée qu’elles contiennent. Grâce au bruit qu’elles contiennent. Le vert, par exemple, avec ce r qui racle, qui gratte au milieu, démange et écorche la peau, est la couleur d’une chose qui brûle, comme le soleil. Par contre, toutes les couleurs qui commencent par le b sont belles. Comme le blanc ou le blond. Ou le bleu qui est très beau. Voilà, par exemple, pour moi une belle fille, pour être vraiment belle, devrait avoir la peau blanche et les cheveux blonds. Mais si elle était vraiment belle, alors elle aurait les cheveux bleus.
Il y a également les couleurs qui ont une forme. Une chose ronde et grosse est sans aucun doute rouge. Mais les formes ne m’intéressent pas. Je ne les connais pas. Pour les connaître, il faut les toucher et moi, je n’aime pas toucher, je n’aime pas toucher les gens. Et puis, avec les doigts je perçois seulement les choses qui m’entourent, alors qu’avec les oreilles, avec ce que j’ai dans la tête, je peux aller très loin. Je préfère les bruits. C’est pour cette raison que j’utilise le scanner. Tous les sois, je monte dans ma chambre et je mets sur la platine un disque de Chet Baker. Toujours le même, parce que j’aime le son de sa trompette, tous ces p petits et profonds, qui tournent autour de moi, j’aime sa voix qui chante doucement, comme si elle provenait du fin fond de sa gorge et avait du mal à sortir, et comme si, pour y parvenir, il fallût souffler avec un effort si grand au point de fermer les yeux. (…) Ainsi, tous les soirs et toutes les nuits j’attends qu’Almost Blue glisse lentement au fond de mes oreilles, que la trompette, la contrebasse, le piano et la voix deviennent une seule et même chose et remplissent le vide qui emplit ma tête. Alors, j’allume mon scanner et j’écoute les voix de la ville. Bologne, je ne l’ai jamais vue. Mais je la connais bien, même si probablement c’est une ville qui n’appartient qu’à moi. C’est une grande ville : d’au moins trois heures.